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Francesca Andrich, una carriera tra relazioni internazionali e possibilità di dar voce alle idee

Abbiamo intervistato Francesca Andrich, Responsabile dell’International Relations Unit al Politecnico di Milano, la struttura che instaura e coltiva relazioni con l’Europa e con il mondo per creare una didattica sempre più globale. Con 20 anni di esperienza, Francesca ci ha raccontato il lavoro che svolge, il suo percorso di carriera in Ateneo, le sfide che ha incontrato e il suo rapporto con i colleghi.

Donna bionda con capelli corti e occhi azzurri. Indossa un paio di occhiali con montatura nera, una giacca color tiffany e una camicia nera. Sullo sfondo, finestre ad arco e balconata interna al Rettorato.
Data di pubblicazione

Abbiamo intervistato Francesca Andrich, Responsabile dell’International Relations Unit al Politecnico di Milano, la struttura che instaura e coltiva relazioni con l’Europa e con il mondo per creare una didattica sempre più globale. Con 20 anni di esperienza, Francesca ci ha raccontato il lavoro che svolge, il suo percorso di carriera in Ateneo, le sfide che ha incontrato e il suo rapporto con i colleghi.

 “Credo in una leadership partecipativa, capace di stimolare nuove idee, costruire obiettivi comuni e accompagnare le persone nel loro percorso di crescita”

Francesca Andrich, Head of International Relations Unit

Come sei arrivata a occuparti di relazioni internazionali nel mondo accademico?

Mi sono laureata in Scienze internazionali e Diplomatiche a Bologna, nel 2004. Subito dopo la laurea, ho svolto un anno di stage tra il Ministero degli Affari Esteri e alcune ONG. Sognavo di lavorare nel campo della cooperazione internazionale, ma presto mi sono resa conto che l’accesso a quel mondo richiedeva tempo e perseveranza. In quegli stessi anni, ho scoperto che il Politecnico di Milano stava iniziando ad aprirsi all’internazionalizzazione: venivano attivati i primi corsi in lingua inglese, capaci di attrarre studenti da tutto il mondo. Così ho deciso di cogliere l’opportunità: ho partecipato a un bando e, nel 2005 è cominciato il mio percorso al Politecnico. 

Quali sono state le tappe principali del tuo percorso fino a oggi?

Ho cominciato occupandomi dell’accoglienza e dell’integrazione degli studenti internazionali per il Campus Bovisa. Qui ho trovato un ambiente dinamico, dove tutto era ancora da costruire. C’era spazio per immaginare, progettare, innovare: è questo che ha acceso la mia motivazione e che, ancora oggi, continua ad alimentarla. 

In qualche anno i corsi in lingua inglese sono aumentati in modo esponenziale, così come l’affluenza di studenti internazionali. È così che è nato l'International Student Office, di cui sono diventata coordinatrice. Insieme a un team di sette persone, ho progettato e sviluppato servizi dedicati all’accoglienza, come il progetto Buddy o la Welcome Week, che ancora oggi rappresentano punti fermi del nostro percorso di internazionalizzazione.

Dopo una breve esperienza presso la Scuola di Architettura, sono tornata nell’ambito delle relazioni internazionali, dove continuo a lavorare tuttora come Responsabile dell’International Relations Unit.

In cosa consiste, concretamente, il tuo lavoro e quello del tuo team?

L’International Relations Unit è l’ufficio che promuove e supporta la cooperazione accademica a livello globale. Lo facciamo attraverso una rete solida e in continua espansione di collaborazioni con università e istituzioni di prestigio in tutto il mondo, tra cui spiccano realtà come la IDEA League e l’alleanza europea ENHANCE. Il nostro obiettivo è contribuire a costruire una didattica sempre più internazionale, inclusiva e aperta al dialogo tra culture e sistemi educativi diversi.

Ogni giorno lavoriamo per rafforzare il profilo internazionale dell’Ateneo e creare nuove opportunità per studenti, docenti e personale tecnico amministrativo.

Quali sono le sfide che ti capita di incontrare nel tuo lavoro?

Lavorare in ambito di relazioni internazionali, soprattutto all’interno di alleanze come ENHANCE, significa confrontarsi ogni giorno con culture, approcci e stili lavorativi molto diversi tra loro. Questa diversità è una grande ricchezza, ma può anche rappresentare una sfida concreta: a volte diventa complicato capirsi, trovare un linguaggio comune e raggiungere obiettivi condivisi.

È un lavoro che richiede grande capacità di ascolto e cooperazione, flessibilità e capacità di adattamento continuo.  

Cosa significa per te la relazione internazionale?

La dimensione internazionale è quella in cui mi sento davvero a casa. Trovo che le persone che operano in questo contesto siano spesso caratterizzate da una maggiore apertura, frutto del confronto continuo con la diversità culturale. È proprio questa ricchezza relazionale che mi motiva e che cerco di restituire, attraverso il mio lavoro, all’intera comunità accademica. 

Poter contribuire a qualcosa che genera impatto dentro e fuori dall’università è, per me, una delle parti più belle e gratificanti di questo lavoro.

Come descriveresti il tuo stile di leadership?

Ammiro il modello di leadership dei Paesi nordici, caratterizzato da uno stile partecipativo e inclusivo. In questo approccio, il leader è una persona tra le altre, che si distingue per la capacità di aiutare il gruppo a trovare la propria direzione, più che di imporla. 

Quando lavoro con il mio team, cerco di costruire gli obiettivi insieme, definendoli in modo condiviso e lasciando spazio alla loro creatività. Allo stesso tempo, mi piace creare nuovi stimoli proponendo attività che siano anche delle sfide. Credo che mettersi alla prova in contesti non convenzionali aiuti a scoprire attitudini e potenzialità nascoste, a rafforzare la fiducia in sé stessi e a sviluppare la voglia di migliorarsi continuamente.

Che consiglio daresti a chi vorrebbe intraprendere un percorso simile al tuo?

Il consiglio che darei è di coltivare la propria capacità di visione e di non temere mai di condividere le proprie idee. Anche un’idea che non si traduce subito in un progetto può avere un grande valore. Presentarla in maniera strutturata è già una via per raccontare qualcosa di sé: il proprio modo di pensare, di osservare la realtà e il desiderio di migliorarla. E questo, spesso, è il primo passo per generare cambiamento.